Non so chi sono, da dove realmente provengo, quale sia la mia vera storia, chi siano le persone con le quali ho costruito la mia identità attuale: non lo so e forse non lo voglio realmente sapere. Certo, l'incertezza, il dubbio, il contimuo sovrapporsi di pensieri e riflessioni provocano sofferenza, disagio a volte non comprensibili nemmeno a noi stessi e neppure avvicinabili con l'immaginazione. La mente si vaporizza, il corpo si abbandona e si contorce su sé stesso come un serpente affamato di vita, ecco hanno inizio gli stati di allucinazione perversa. La genesi del racconto ha inizio nel precedente studio dell'artista, un luogo "sofferente", dove il reale si perde tra le trame del surreale, un gioco complesso, fastidioso, che mette paura, a volte estremamente intrigante, che in alcuni casi rasenta il sapore del piacere. Luca Dalmazio allestisce un asorta di set fotografico, quasi a voler essere egli stesso artefice e soggetto, un alter ego creativo-emozionale. L'occhio dell'artista si trasforma in immagine, in occhio fotografico, meccanico per poi divenire membra, movimenti, contorsioni, emozioni, corpo dal quale come da una crisalide fuoriesce, dimenandosi in un'idenità fin aloora sconosciuta. Mi sento perso, solo, impaurito, vulnerabile, cerco di nascondermi, ma sono nudo, inerme, la mente inizia ad affondare nel magma dell'ignoto, non voglio risvegliarmi e ritrovarmi ancora una volta abbandonato. Mi sento osservato, giudicato, uno sguard insistente incombe dall'alto, mi cerca, mi rincorre e mi schiaccia sul pavimento; una pavimentazione liberty, apparentemente dolce, accogliente, dove è possibile ritrovare le certezze smarrite. Ma come spesso accade ecco che improvvisamente il piacere affannosamente cercato e posseduto diviene dolore, il suolo ha un effetto risucchiante, ingloba, assorbe il corpo dell'artista, lo muove, lo fasuo, tirandone i fili, fino ad arrivare ad essere il solo padrone. Il motivo decorativo, si ripete all'infinito, ritorna, insiste, circonda il corpo di Dalmazio, lo avvolge, lo aggroviglia non lasciandogli spazio riflessivo, ma divenendo quasi repressivo. Come un tarlo pulsa, batte ripetutamente nella mente e come sostiene l'artista stesso subentra una sorta di stato allucinatorio, nel quale egli pare liquefarsi, divenendo un tutt'uno con l'ambiente circostante. Il luogo è freddo, asettico, monocromo, realizzato con tinte verdi, blu o canna da zucchero, che paiono bloccare il racconto, come se l'istante venisse incastonato in un tempo immobile, dove la sola angoscia è concessa. La monotonia cromatica viene improvvisamente interrotta da alcune "intrusioni" di piccoli interventi pittorici, che si addensano invadendo la decorazione del pavimento; il colore a volte arancio, a volte rosso, diviene elemento vitale, si muove e si insinua tra le trame dello spazio, assumendo sia una valenza di intromissione nella continuità di chi osserva, ma altresì un'ultima opportunità alla quale aggrapparsi prima di abbandonarsi ad uno stato di allucinazione perverso. Nasce un nuovo modo di leggersi, di intendere la natura umana e il rapporto con ciò che ci sta intorno, con gli altri; si plasmano così nuovi confini, scenari della percezione, della comunicazione, della vita quotidiana, in modo che il rischio intrapreso possa divenire il mezzo per poter accingersi ad una sorta di riconfigurazione della nostra identità. Uno sguardo non più singolo, costretto all'interno del limite dell'apparenza, ma ormai configurato in rifermento all'uomo nel senso più ampio del suo significato, che non ne distingua più le apparenti differenze e che ne riconosca invece l'intima condizione dei sensi.
Alberto Mattia Martini
Nella solitudine e nello sconforto, nell'angoscia dell'abbandono...quando sopraggiungono allucinazioni e l'IO messo a nudo si contorce...lì in fondo s'incontra l'Arte, ultima fedele compagna di vita.
Grace Zanotto